20 settembre 1870: 150 anni dalla breccia di Porta Pia

Fonte: Distretto d'Italia

La caduta della Roma pontificia

nella ricostruzione di «Civiltà Cattolica» (1870-1871)

Giovanni Turco

La Tradizione Cattolicca n°2 (113) - 2020 (pp.32-49)

1. Difesa e conquista di Roma

Gli avvenimenti che si condensano nella difesa e nella conquista delle ultime province dello Stato pontificio nel settembre del 1870 trovano nella Cronaca contemporanea della «La Civiltà Cattolica» una testimonianza attenta e puntuale. Vi si incontrano resoconti circostanziati, frutto di un quadro informativo in prevalenza attinto sul campo, oltre che da uno spoglio selettivo della stampa periodica. Questi, essendo non meno degli articoli impegnativi della reputazione della Rivista, presuppongono un vaglio ed una ponderazione che ne rendono viepiù rilevante il contributo documentario.   

Nella Cronaca il giudizio piuttosto che precedere i fatti emerge dalla loro determinatezza. Il rinvio ad essi si presenta al di là delle ipoteche ideologiche, che pretendono di alterarne la fisionomia. La narrazione ideologica, infatti, subordinata in se medesima ad obiettivi prassiologici, al confronto con i dati, non può non palesare la propria tendenziosità. Il rinvio all’evidenza dei fatti costituisce una cifra distintiva, che rende obiettivamente apprezzabile la Cronaca contemporanea per la ricostruzione di passaggi epocali decisivi. Questa perciò consente sia di attingere elementi fattuali pregnanti, sia di correggere versioni ufficiali strumentali. Come può essere segnalato per gli eventi che scandirono i momenti cruciali della instaurazione dello Stato risorgimentale sulle ceneri degli ordinamenti politici preunitari della Penisola.

Tanto è vivida ed incisiva la Cronaca contemporanea, per quanto riguarda le vicende risorgimentali, che il suo oblio costituirebbe un innegabile fattore di debolezza, se non una palese menomazione del panorama delle fonti, per qualsivoglia ricostruzione storiografica. In particolare, tra 1870 e 1871, «La Civiltà Cattolica» descrive, con sobrietà di accenti non meno che con partecipe attenzione, le vicende che portarono alla fine del Principato civile dei Papi (le cui origini rimontavano al secolo VIII) ad opera del Regno d’Italia.

Quasi ad indicare la sostanza dell’incipiente questione romana, la Rivista5 riferisce il testo di un discorso di Pio IX (17 giugno 1870), pronunciato in occasione del venticinquesimo anno del suo pontificato. Vi si trascrive una diagnosi tanto densa quanto essenziale del processo risorgimentale. Questo è frutto di un movimento propriamente rivoluzionario, e si attua come progetto di “emancipazione”. L’emancipazione politica è stata, ed è, funzionale all’emancipazione religiosa. L’una ha preceduto l’altra, le ha aperto la strada, e la contiene in nuce. Di fronte a questa novazione, Pio IX individua tre distinti atteggiamenti: quello di coloro i quali vi prestano (in vario modo e a vario titolo) la loro opera, quello di coloro che di fronte ad esso hanno una attitudine incerta ed ondivaga, e quello di coloro i quali vi sono estranei (e sono «i più», che, nonostante tutto, camminano – egli scrive – «nelle vie della verità e della giustizia»).    

Tale emancipazione costituisce una “liberazione” nel suo significato ideologico, la cui decodificazione la rivela come una immanentizzazione. Si tratta di una teoria che si fa prassi. In questa prospettiva la liberazione è una autonomizzazione, mediante la quale è sottratta la vincolatività di principi superiori. L’emancipazione è l’esclusione della trascendenza, nella vita civile come nella conoscenza filosofica.

Questo processo, dunque, non si limita ad una questione di potere territoriale, né si esaurisce in una congerie di ambizioni particolari. Il suo significato profondo, perciò, ne travalica gli episodi. La sua ragion d’essere politica è religiosa: lo è, da un lato, in quanto la politica è intesa come fattore di una soteriologia immanentizzata, e dall’altro in quanto la religione immanentizzata ne costituisce la scaturigine e l’approdo. Di modo che, paradossalmente, la sua natura religiosa è la verità della sua natura politica, e, proprio per questo, la politica in se medesima è negata nel dominio statuale, e la religione in se medesima è negata nella gnosi storiologica.    

La Cronaca registra gli atti ufficiali dello Stato risorgimentale posti in essere quasi a titolo di legittimazione dell’azione militare che veniva intrapresa nei confronti del Papato. Tra essi rileva in ispecie il testo delle istruzioni del Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia al conte Ponza di San Martino (datato 8 settembre 1870 e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del Regno l’11 seguente). A tenore delle consegne ivi contenute, il destinatario avrebbe dovuto notificarne le risoluzioni al Papa. L’imminente attacco alle province pontificie viene presentato come derivante dalla volontà di prevenire disordini derivanti da agitazioni rivoluzionarie. Vi si annuncia la volontà di «far entrare le nostre truppe nel territorio romano, quando le circostanze ce lo dimostrino necessario».

Senza un motivo per invadere lo Stato pontificio, né alcuna dichiarazione di guerra, vi si palesa solo un intento dominativo (sia pure strumentalmente validato). La decisione è data come già assunta. Le circostanze sono indicate come unica variabile. Nessuno spazio risulta lasciato ad alcuna alternativa, ad alcuna trattativa, ad alcuna intesa.  

Il medesimo testo dichiara, quasi a titolo di qualificazione positiva, una autorestrizione dell’imminente azione militare, su tre versanti: sarebbe stata lasciata «alle popolazioni la cura di provvedere alla propria amministrazione»; sarebbero stati tutelati i «diritti imprescrittibili dei Romani»; sarebbe stato garantito l’interesse del «mondo cattolico all’intiera indipendenza del sommo Pontefice».

Tali enunciazioni restituiscono il loro autentico significato se decodificate nella visuale dell’ideologia risorgimentale. In questa prospettiva le popolazioni (in questo caso, i “Romani”) acquistano una sorta di ipostatizzazione collettiva, come di entità cumulativa, capace di agire con un volere solo e dotata di diritti formali, mentre l’indipendenza autoreferenziale (senza aggettivi) appare come bene assoluto (perciò garantito anche al Pontefice).

Ora, se da un lato va rilevato che tali assunzioni, proprio nella prospettiva che le informa, non possono che essere sottomesse alla “coscienza in atto” ed agli “obiettivi operativi” dell’organizzazione (pro tempore) intenta a trapassare dalla teoria alla prassi; dall’altro è innegabile che l’esperienza della condotta successiva dello Stato risorgimentale smentirà empiricamente il significato immediato delle intenzioni dichiarate e delle assicurazioni fornite.

La Cronaca contemporanea non manca di evidenziare che l’invasione italiana non trova alcuna giustificazione, neppure in una eventuale situazione di turbolenza interna (dovuta ad un intervento mazziniano-garibaldino) o in un conflitto (di segno rivoluzionario) tra popolazioni e governo, dal momento che «allora lo Stato della Chiesa versava nella più profonda quiete». Non c’era, infatti, né ci fu alcuna sollevazione popolare, invocante l’annessione al Regno d’Italia. Non si registrò alcuna sommossa di segno liberal-nazionale tra le popolazioni. Ciò che escludeva, facendo appello all’evidenza, ogni giustificazionismo tale da presentare l’intervento militare italiano come richiesto dal “mantenimento dell’ordine” e della garanzia della “sicurezza della Santa Sede”.    

In questo contesto viene dato conto della missione romana del conte Ponza di San Martino, latore di una lettera di Vittorio Emanuele II al Sommo Pontefice (pubblicata, poi, sulla Gazzetta ufficiale del Regno il 20 settembre 1870). In sostanza, si trattava di intimare al Papa la resa di fronte all’imminente invasione delle ultime province dei territori pontifici. Peraltro, il tentativo era accompagnato da pesanti pressioni sull’episcopato della Penisola, affinché clero e vescovi si astenessero dal solidarizzare attivamente con Pio IX e dal sostenerne i diritti.

Il Giornale di Roma (12 settembre 1870) – ripreso da «La Civiltà Cattolica» – segnala i due motivi ideologico-propagandistici esibiti a sostegno dell’imminente offensiva: l’irresistibilità del “partito d’azione” e della “aspirazione nazionale”. Quasi ad invocare una necessità cogente, propria del presunto Zeitgeist. Il medesimo giornale attesta che, respingendo quello che viene denominato come «atto inqualificabile»10, il Papa «si è dichiarato recisamente contrario a qualunque proposta».

 

Pio IX risponde alla missiva, fattagli pervenire a firma di Vittorio Emanuele II, con una lettera (11 settembre 1870) pubblicata successivamente (in francese) dal Bien public di Gand. Il Pontefice, nel dichiarare che l’iniziativa del Regno d’Italia lo ha colmato «di amarezza», dichiara, con fermezza, che l’atto di imminente appropriazione dei territori dello Stato pontificio è moralmente e giuridicamente inammissibile: «io non posso ammettere certe richieste, né conformarmi a certi principii contenuti nella sua lettera».

Il medesimo giorno della risposta papale – quindi prima che potesse giungere a Firenze, ovvero indipendentemente da questa – secondo il piano predisposto di “assalto concentrico” a Roma – come testimonia la Cronaca – le truppe al comando del generale Cadorna (già raccolte nei pressi di Terni, Rieti ed Orte) iniziano l’avanzata.

Il generale Kanzler, comandante supremo dell’esercito pontificio, aveva stabilito che – in ottemperanza alle disposizioni impartite da Pio IX – i diversi reparti stabiliti a difesa delle province fossero fatti confluire sull’Urbe, per «evitare conflitti troppo disuguali ed inutile spargimento di sangue». L’ordine, però, non arriva ad essere comunicato per tempo al presidio di Civita Castellana, investito dall’attacco italiano. Esso, nonostante la pesante disparità di forze, non viene meno al proprio dovere: sostiene, pur con pochi uomini e scarsi mezzi, l’urto della divisione di Cadorna e difende strenuamente la città. La Rivista ne dà contezza asciuttamente: il presidio di Civita Castellana «fece bravamente il dover suo di difendere il passo, quanto era consentito dalla condizione dei luoghi e dalla sproporzione tra men che 250 soldati senza cannoni, contro una intiera divisione di più migliaia forniti di numerosa artiglieria».

Gli invasori non vengono accolti come liberatori. Al loro ingresso nelle città e nei villaggi l’estraneità nei loro confronti si manifesta inequivocabilmente. Di contro, sono numerose le attestazioni di stima e di gratitudine per le milizie pontificie. Quasi ad attestare icasticamente l’apprezzamento per l’ordine tradizionale e l’ostilità alle promesse rivoluzionarie.

La Cronaca contemporanea ne dà notizia riportando una pagina del Giornale di Roma (15 settembre 1870): «L’accoglienza che le soverchianti forze nemiche han trovato nelle popolazioni, mantenutesi costantemente nell’ordine e nella tranquillità fu la più fredda; mentre alle truppe pontificie, che all’appressarsi del nemico sgombravano i luoghi che era impossibile difendere, ed operavano un movimento di congiunzione per ripiegare sulla capitale, le stesse popolazioni, accorrendo in folla sul loro passaggio, dimostravano con le parole e gli atti il dolore da cui erano comprese. La uscita dei nostri soldati, principalmente a Frosinone e a Terracina, produsse un commovente effetto sulle masse, che ne rimpiangevano la partenza. Dalla provincia viterbese il colonnello Charette è arrivato in Roma con la intera colonna da lui comandata; e ciò han fatto pure dalla provincia di Velletri il colonnello Azzanesi, e da quella di Frosinone il maggiore Lauri, con le truppe poste sotto i loro ordini».

Avendo le truppe italiane circondato il perimetro delle mura romane, il 15 settembre 1870, Cadorna invia a Kanzler una intimazione a capitolare, lasciando che il suo esercito faccia ingresso nella Città. A questa il comandante pontificio risponde di essere risoluto, per la difesa della libertà del Papa, a «fare resistenza con i mezzi che restano a mia disposizione, come c’impone l’onore ed il dovere». Col medesimo tenore il generale Kanzler risponde ad una seconda analoga missiva cadorniana, ribattendo essere l’iniziativa militare italiana un «sacrilego attacco», una «ingiusta aggressione» ed una «già troppo inoltrata violenza». Questa è sprovvista delle pur apparenti giustificazioni ostentate, giacché la condotta delle popolazioni delle province pontificie non rivela alcun segno di volontà di annessione al Regno risorgimentale. Al contrario, anzi, esse «hanno dato indubitate prove di attaccamento al Governo pontificio».

La Cronaca registra la disposizione delle forze a difesa dell’Urbe, come essa è fissata ed attiva nei giorni immediatamente precedenti l’attacco: «I Pontificii, che in tutto poteano essere 8.000 uomini, stavano alle mura; ed i volontari romani della riserva, che erano un’eletta del patriziato e della borghesia romana, vigilavano al mantenimento dell’ordine sulle piazze e per le vie di Roma. Al Vaticano l’onore della difesa era lasciato alle varie guardie palatine ed a un piccolo numero di artiglieri».

La sproporzione delle forze tra difensori ed invasori era evidente. La Rivista segnala che i secondi potevano contare su una forza di circa 50.000 uomini. Sulla linea dell’attacco, lo svantaggio dell’artiglieria pontificia era parimenti netto: i pontificii erano dotati di una trentina di pezzi di artiglieria di vario e piccolo calibro, a fronte dei 130 cannoni del nemico.

La Cronaca contemporanea attesta il contegno ed il valore di tutte le truppe schierate a difesa della Roma papale, particolarmente degli Zuavi pontificii. Lo scontro finale ha inizio all’alba del 20 settembre. Le batterie italiane aprono il fuoco particolarmente tra porta Salaria e porta Pia, fino a porta San Giovanni. Il cannoneggiamento, in breve, apre larghi squarci nelle vecchie mura. Bombe e granate si abbattono sulla Caserma al Castro Pretorio. Le difese erette agli archi della ferrovia vengono distrutte. Proiettili giungono fin verso il Quirinale. Un vasto incendio divampa a villa Bonaparte. Ben presto rovinano sia porta Pia sia porta San Giovanni, mentre «la divisione di Nino Bixio dalle alture della villa Panfili assaliva i bastioni di porta San Pancrazio, e tempestava di granate il Trastevere, con guasto ed incendio di case ed edifizi in gran numero».

Il cannoneggiamento delle mura di Roma dura circa cinque ore. Vengono impiegati circa 120 cannoni. La Rivista riferisce che, secondo testimonianze affidabili, «le sole granate esplosive toccassero il numero di 4.000; e che più del doppio fossero i proietti conici onde furono guaste e sfasciate le mura e le porte».  

Intorno alle ore 10, Pio IX, allorché è chiaro che, sta per essere dato l’ordine di assalto attraverso le brecce aperte nelle mura, come era suo intendimento già manifestato al comandante Kanzler, per evitare lo spargimento di sangue prevedibile nella difesa dell’Urbe, dà ordine di issare la bandiera bianca. Le truppe pontificie obbediscono, astenendosi quindi da ogni ulteriore azione militare. Di contro, i reparti italiani, nonostante la bandiera bianca richiedesse l’interruzione delle ostilità e l’avvio delle trattative, attaccano «come se la pigliassero d’assalto». In tal modo essi simulano il compimento di un’impresa bellica ormai senza ragion d’essere, in quanto attuata contro un nemico che aveva dichiarato poco prima di cessare la difesa.

La Cronaca rievoca quei momenti concitati. L’assalto dei reparti italiani viene dato nonostante fosse ben visibile la bandiera bianca, «abusando così del rispetto che i Pontificii praticavano delle costumanze di guerra, mentre la bandiera bianca che sventolava d’ogni parte denunziava: essere sospese le ostilità, e dover ciascuno restare quieto nelle posture occupate, finché fossero o rotte o conchiuse le pratiche per la resa. Questo tratto, niente glorioso per chi ne raccolse il frutto di una sicura entrata in Roma senza danno, fu poi volto ad oppressione dei Pontificii, ai quali furono negate quelle franchigie, che con una più energica difesa (se il Papa l’avesse voluta permettere) avrebbero saputo esigere dal nemico, prima di deporre le armi».

I garibaldini, escludendo di fare da avanguardia si tengono alle spalle dell’esercito regio, per potere entrare al suo seguito in Roma. Una volta penetrati nella Città si dànno ad ogni sorta di violenza contro uomini e cose rappresentanti l’autorità papale, e particolarmente contro i militari pontificii, sorpresi isolatamente o in piccoli gruppi. La Rivista ne tratteggia il comportamento tenuto il 20 settembre: «A gran corsa scesero entro Roma; assalirono le caserme de’ Gendarmi; invasero le Presidenze de’ Rioni, mettendole a sacco e ruba e mandandone a male i registri […]; si diedero ad abbattere gli stemmi pontificii; malmenarono a morte non pochi soldati; imposero con grida furibonde ed ottennero subito dagli atterriti cittadini che si ornassero i balconi con bandiere nazionali, distribuite per opera di loro complici che le avevano da pezza per ciò apprestate in Roma, e le davano gratis». Ma non solo. Tra gli atti dei garibaldini vengono anche segnalati il saccheggio della caserma Serristori, l’assalto alla Presidenza del rione Borgo (spingendosi fino al porticato della Basilica di San Pietro, da dove vengono allontanati grazie all’intervento di alcuni gendarmi pontificii), nonché le perquisizioni arbitrarie, le grassazioni, gli oltraggi e le violenze a conventi e monasteri (durante diversi giorni).

Malgrado la pesante sproporzione delle forze in campo, la Cronaca contemporanea riferisce che i caduti tra i pontificii non superarono i 20, mentre tra gli assalitori essi giunsero fino a (circa) 40. Analogamente il numero dei feriti pontificii si attestava intorno ai 50, diversamente dagli oltre 150 dell’esercito italiano.

Pio IX, mediante una Circolare inviata ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, dichiara del tutto nulle ed illegittime le annessioni dei territori pontifici al Regno d’Italia. Tra le spoliazioni attuate dal nuovo Stato, la Rivista fa stato, in particolare, di quella del palazzo apostolico del Quirinale e di quella del Collegio romano, acquisiti sottraendoli rispettivamente al Papato ed alla Compagnia di Gesù – al di là di qualsivoglia fondamento giuridico – in forza della mera effettività del potere. Ad esse lo Stato liberale aggiunge pesanti restrizioni della libertà. Sicché tutti i giornali cattolici romani incappano nella censura del regime unitario.



Degna di nota è, infine, la testimonianza della lealtà nei confronti del Papa, di gran parte dei funzionari dell’amministrazione civile e degli ufficiali dell’esercito. Questi si rifiutano di entrare nei ranghi dello Stato italiano, non intendendo giurargli fedeltà, né prestargli servizio né collaborare con esso. Donde una situazione emblematica e concretissima: «Allettati con ogni maniera di profferte e di lusinghe, sollecitati coll’interesse del lucro e delle promozioni, minacciati, atterriti colla denunzia dello spogliamento e dell’esclusione d’ogni impiego, codesti ufficiali in massima parte rifiutarono di servire il Governo liberatore; alcuni pochi, astretti da necessità e dopo salve le ragioni della coscienza, a stento si ridussero a continuare per poco tempo nell’esercizio delle loro cariche; e quasi tutti, quando fu loro intimato di prestare il giuramento al nuovo ordine politico dello Stato, preferirono essere gettati senza pane sul lastrico, anziché lasciar credere che in loro venisse meno il sentimento della fedeltà giurata al Papa ed alla difesa dei suoi imprescrivibili diritti. V’ebbe dicasteri interi, in cui non uno degli ufficiali pontificii si arrese al passo del giuramento».                                                                   

                                                

2. Il “nodo romano”

Vedere il testo completo con le note nella nostra rivista: La Tradizione Cattolicca n°2 (113) - 2020 (pp.32-49).

Troverete anche la difesa dottrinale del potere temporale dei Papi: "L'indipendenza temporale del Papa nella dottrin cattolica", Ibidem, pp. 22-31.