Problemi circa la confessione in tempo di "coronavirus"

Fonte: Distretto d'Italia

La Sacra Penitenzieria Apostolica ha pubblicato ieri 20 marzo due documenti. Il primo promulga una speciale concessione di indulgenze per i malati e i medici che affrontano questa epidemia. Tale pratica rientra nelle usanze della Chiesa in tempi di pestilenza: a puro titolo di esempio, durante la peste del 1656 Alessandro VII concesse larghissime indulgenze a modo di giubileo per vivi e defunti, riducendo al minimo le opere richieste abitualmente per lucrarle. In particolare il decreto permette che anche i fedeli sani bloccati in casa possano acquistare le solite indulgenze plenarie (rosario in comune, via crucis etc.), rimandando a dopo la fine della quarantena la ricezione di confessione e comunione, abitualmente prescritte come condizioni per qualsiasi indulgenza plenaria. Resta inteso che per lucrare qualsiasi indulgenza occorre essere in grazia di Dio, quindi compiere almeno un atto di contrizione perfetta se si fosse in peccato mortale, includente il proposito di confessarsi.

Ma ad attirare la nostra attenzione è soprattutto il secondo documento, una Nota sull’amministrazione del Sacramento della Confessione nella situazione attuale. Il documento, che sostanzialmente richiama la dottrina tradizionale con relativa chiarezza, viene a rispondere al caos in cui la scarsa formazione del clero moderno stava portando. Si è visto il vescovo di Arezzo trasmettere un’assoluzione generale a tutti i malati tramite la televisione; sappiamo di sacerdoti che pensano che si possa assolvere per telefono o via skype (e molti lo facevano perfino prima dell’epidemia); dei laici suggeriscono ai preti di passare fuori dagli ospedali impartendo assoluzioni generali dalla strada. Per una volta quindi la Santa Sede sembra essere intervenuta a sopperire a tale straordinaria confusione, dovuta a una mancata formazione nei seminari su argomenti quantomeno essenziali alle funzioni di base del sacerdote.

Riprendiamo qui alcuni punti importanti.

Per l’amministrazione dei sacramenti, compresa la confessione, è necessaria la presenza del fedele e del ministro (ciò vale anche, in modo ordinario, per i sacramentali). Il sacramento della confessione è un giudizio che si compie in modo umano, è necessario che il penitente possa sentire le parole dell’assoluzione. Non importa che le senta di fatto (può esserne accidentalmente impedito), è sufficiente che sia quantomeno possibile. Gli autori, sant’Alfonso in testa, stimano che per la validità non ci debbano essere più di venti passi di distanza tra sacerdote e penitente. Per necessità grave, si potrebbe assolvere sotto condizione una persona più lontana, ma che riesce a percepire o sapere che sta ricevendo l’assoluzione, purché si tratti sempre di una distanza in cui i sensi possano ancora percepire il confessore.

L’assoluzione per telefono, o televisione, o altri mezzi simili, è considerata del tutto invalida da Cappello, ed estremamente dubbia dagli altri autori. La presenza infatti non c’è, e le parole che si sentono sono quelle di un apparecchio elettrico. Una tale assoluzione, oltre che quasi certamente invalida, sarebbe anche gravemente illecita. Gli autori ammettono solo il caso del moribondo vero e proprio, quando non esiste altra possibilità: in tal caso, visto che si deve tentare il tutto per il tutto, sarebbe lecito (ma resterebbe estremamente dubbio) assolvere sotto condizione anche per telefono. Si capisce però che la ratio è che in un momento del genere, e in condizioni di totale impossibilità, ci si aggrappa anche alle cose più improbabili. In qualsiasi altro caso un’assoluzione anche condizionata data per telefono sarebbe un peccato mortale, perché esporrebbe il sacramento a quasi certa invalidità senza un motivo sufficiente.

In caso di necessità molto grave, come è il pericolo di contagio (tutti gli autori fanno questo esempio), il penitente è scusato dall’integrità dell’accusa: cioè non è tenuto a dire tutti i suoi peccati mortali, o perfino può non accusarne alcuno. L’accusa potrà e dovrà comunque essere compiuta quando e se la necessità sarà cessata. Tuttavia non esiste nessun caso in cui il penitente possa ricevere validamente l’assoluzione senza aver posto un atto di dolore, almeno imperfetto, dei peccati: infatti il sacramento verrebbe a mancare della sua materia, che sono gli atti stessi del penitente, e con ciò non potrebbe esistere. Occorre quindi fare il possibile per ottenere tali atti, prima di dare l’assoluzione. Quando si assolve sotto condizione una persona incosciente, lo si fa a condizione e nella speranza che, prima di perdere i sensi, abbia potuto fare un atto di dolore con il desiderio di confessarsi. Se lo ha fatto, l’assoluzione sarà valida; altrimenti, il sacerdote avrà semplicemente cercato di fare tutto il possibile

Quanto all’assoluzione collettiva, essa è certamente lecita in caso di estrema necessità, e il documento della Penitenzieria opportunamente ritiene che ciò valga per i malati di coronavirus isolati negli ospedali. Quindi essi sono dispensati dall’integrità dell’accusa e possono ricevere l’assoluzione tutti insieme: ma è comunque necessario che il sacerdote sia presente, fosse anche (come dice il documento) “all’ingresso dei reparti ospedalieri”. Chiaramente in tal caso i malati dovranno essere avvertiti, in modo da poter fare l’atto di dolore, e possibilmente avvicinati in modo da percepire la presenza e le parole del sacerdote. Non sembra sia sufficiente, contrariamente a ciò che dice il documento, che odano le parole solo tramite amplificazione: ricadremmo nel caso del telefono. Possono anche non sentire materialmente, se è solo per un impedimento esterno, purché l’udire rimanga umanamente possibile. Si fa notare che anche nel dare l’assoluzione collettiva ai soldati schierati per la battaglia, si raccomandava (in caso di eserciti molto grandi) di passare tra i vari reparti e assolverli a gruppi, e non tutti insieme, anche qualora tutta l’armata radunata potesse vedere il sacerdote. Questo per non venir meno al modo umano in cui il giudizio sacramentale viene percepito dal singolo penitente. Se un reparto è molto grande, sarebbe quindi opportuno che i malati venissero avvicinati alla porta a gruppi per ricevere l’assoluzione, fosse anche attraverso la porta chiusa.

Si capisce quindi come un’assoluzione data ad assenti, che non hanno posto alcun atto del penitente, magari solo tramite ausili elettrici, accumuli diverse cause di invalidità pressoché certa, ed esponga le parole sacramentali ad essere pronunciate con irriverente vacuità. La stessa assoluzione sotto condizione infatti va amministrata in modo ragionevole, per cause proporzionate, e con una qualche probabilità di validità. Altrimenti il sacerdote che entra in un autogrill potrebbe assolvere tutti i presenti senza che lo sappiano, perché potrebbe sperare che qualcuno abbia fatto un atto di dolore, temendo che qualcuno potrebbe di lì a breve essere coinvolto in un incidente. Si capisce che tali atteggiamenti divengono semplicemente senza senso e snaturano totalmente il sacramento.

Il documento invita poi a costituire gruppi di cappellani ospedalieri, anche volontari, in accordo con le autorità sanitarie. A nostro avviso, questa è l’unica soluzione reale: il problema è infatti che in moltissimi luoghi (non tutti) agli stessi cappellani è fisicamente proibito l’ingresso ai reparti dei contagiati. I Vescovi e la Santa Sede dovrebbero far valere tutto il peso residuo della loro autorità morale e le norme concordatarie per ottenere che i cappellani ed eventuali altri sacerdoti in loro sostegno possano accedere liberamente agli ammalati, con le stesse cautele che usano i medici. Considerando che molti cappellani sono anche dipendenti statali, devono essere messi in misura di svolgere il loro ruolo capitale, e anche di essere aiutati da sacerdoti volontari o designati. Se i medici entrano ed escono dai reparti con le debite cautele, altrettanto deve essere possibile ai sacerdoti. In molti luoghi sono i medici stessi a richiedere quest’opera, innanzitutto per se stessi. Noi stessi, come sacerdoti della Fraternità San Pio X, rivendichiamo il diritto e il privilegio di assistere i malati che fanno affidamento a noi e che ci chiamano al loro capezzale. Raccomandiamo ai fedeli, nei limiti del possibile, di chiamarci per i sacramenti prima di un eventuale ricovero per il virus, qualora si possa prevedere che questo avvenga a breve.

In ultima istanza, quando il ricorso al confessore è del tutto impossibile, ricordiamo a tutti che è possibile ottenere la grazia di Dio perduta con il peccato mortale elicitando un atto di dolore perfetto, che include il desiderio di confessarsi quando e se sarà possibile (v. QUI).


Fonti minime

F. Cappello S.I., De Sacramentis vol. II pars I, De Poenitentia

B.H Merkelbach O.P., Quaestiones de variis poenitentium categoriis e Quaestiones de Poenitentiae ministris eiusque officiis

D.M. Prümmer O.P., Manuale theologiae moralis t. III