L'ingordigia di comunicazioni
La malattia e la sofferenza sono, per il cristiano, i mezzi privilegiati per unirsi al suo Salvatore. Il mondo si scandalizza del fatto che ne siano colpiti anche i giusti perché ignora la vera misericordia divina.
«Il fatto che anche i giusti soffrano delle pene in questo mondo prova la giustizia e la misericordia di Dio; infatti, per mezzo di queste afflizioni, vengono purificati dalle loro colpe veniali. Si innalzano al di sopra delle cose terrene per avvicinarsi a Dio, come dice San Gregorio: ‘I mali che ci affliggono quaggiù ci obbligano a trovare rifugio presso Dio’», dice San Tommaso d’Aquino (Summa teologica I, q. 21 a. 4 ad 3)…
Una malattia mortale
Tuttavia, la malattia non fa necessariamente soffrire. Certe affezioni, pur non essendo alterazioni fisiche, possono, tuttavia, darci gravi problemi: guastano il nostro raziocinio, viziano il nostro giudizio, feriscono la nostra intelligenza.
E perché? L’intelligenza muore quando non è più capace di svolgere la sua funzione: giudicare. Per questa facoltà, vivere è pensare e pensare è giudicare. Per la maggior parte dei nostri contemporanei, magari anche per noi, i mezzi di comunicazione sono diventati dei veri abbeveratoi. L’ingordigia non ha limiti: vi ci si immerge freneticamente, si divora l’ultima notizia, si gusta il fatto del giorno (per sordido che sia), si sbafano le pubblicità, si pilucca tra i discorsi di questo o quel personaggio, ma senza consumarli fino alla fine, si va di fiore in fiore tra le immagini più o meno appropriate, si commenta l’uno o l’altro giornalista, imprenditore, ministro, prete, vescovo…alla fine, l’immaginazione è piena di un quantità gigantesca di informazioni senza alcun discernimento, è ubriaca di sensazioni scollegate.
Eccola, la grande malattia dei nostri tempi, la nuova peste. La peste nera mieté, tra il 1347 e il 1352, circa venticinque milioni di vittime in Europa. Quante vittime mieterà questa nuova peste? Essa è mortale perché diminuisce, indebolisce, guasta il giudizio e, da ciò, fa marcire la vita sociale.
Con l’abbeveratoio informatico, tutto va bene
Cos’è, dunque, questo male? Non è tanto che l’intelligenza non funziona più, è che funziona sempre nel modo sbagliato. Torniamo ancora a San Tommaso d’Aquino. Nella sua esposizione sulla virtù teologale della fede, tratta del funzionamento della nostra intelligenza ed è normale, poiché questa virtù vi risiede. Questo genio, mai sovvertito dalle apparenze sensibili, precisa che noi siamo capaci, da una parte, di riflessione o cogitazione e, dall’altra, di giudizio o assenso. Si può molto bene, dice, fare l’una senza l’altro. Allora l’intelligenza si mette in stati diversi. Così, chi dubita rimane capace di assentire. Tergiversa, torna e ritorna sugli argomenti, riflette, cogita, ma non arriva alla conclusione.
Evidentemente, si può benissimo non cogitare, né assentire: si è semplicemente ignoranti, dice il dottore angelico. Ma, al contrario, si può essere in quello stato tutto particolare di cogitazione perfetta e, allo stesso tempo, di assenso perfetto. Strano? No, è esattamente il giudizio della fede, per mezzo della quale crediamo a Dio in modo assolutamente certo senza alcuna prova di ciò che crediamo. Credere, dice Sant’Agostino, è «cogitare con assenso».
Ma c’è ancora un altro stato intellettuale. Si può ben cogitare e assentire, ma senza vera convinzione. Si pensa che questo potrebbe essere così, ma, dopo tutto, potrebbe anche essere il contrario. Siamo sicuri - sì - ma leggermente. In effetti non siamo molto sicuri. C’è qualche dubbio? - No, perché sono sicuro, ma…! È il terribile sospetto. Eccolo, il male da cui tutti sono affetti. Nell’abbeveratoio informatico, tutte le informazioni hanno la stessa importanza o, piuttosto, non ne hanno nessuna. Tutte le notizie vanno bene. Dopo tutto, chissà? L’autorità non è da più del giornalista, il maestro dell'allievo. È l’omologazione totale. Non è più il ‘prêt à penser’, è l’assenza di pensiero. La verità è tranquillamente sparita dall’orizzonte intellettuale, si affonda nel relativismo senza più alcun riparo.
Liberaci dal male
Cerchiamo, allora, a preservarci da questo male funesto che rode il nostro tempo come una cancrena. «Evitiamo i discorsi profani che guasteranno poco a poco, come un cancro, chi è sano», dice San Paolo a Timoteo. In conclusione, diciamo dal fondo del nostro cuore: «Padre nostro, liberaci dal male».
Don Benoît de Jorna, Superiore del distretto di Francia della FSSPX
Fideliter n. 249 / La Porte Latine del 1° Agosto 2019